Occorre, in premessa, ricordare come, in data antecedente all’introduzione del reato di combustione illecita di rifiuti, la condotta di appiccare un fuoco potesse essere punita: o a norma dell’art. 423 c.p., allorquando l’incendio avesse riguardato una cosa altrui ovvero una cosa propria ma, in tal caso, ne fosse derivato un pericolo per l’incolumità pubblica; o a norma dell’art. 424 c.p. il quale, invece, sanzionava chiunque, al solo scopo di danneggiare una cosa altrui, appiccasse fuoco ad una cosa propria o di altri con conseguente insorgenza di un pericolo di incendio. Nel caso in cui poi, tale pericolo si fosse realizzato, la pena sarebbe stata quella di cui alla norma precedente, ridotta fino ad un terzo.
A detta del legislatore, però, tale assetto normativo non era in grado di tutelare in maniera adeguata e sufficiente l’ambiente e la sicurezza collettiva (si veda relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del D.L. 136/2013) di talchè lo stesso decise di intervenire in materia, introducendo il nuovo delitto di combustione illecita di rifiuti. Previsto dall’art. 256bis D.lgs. 152/2006, lo stesso punisce: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata è punito con la reclusione da due a cinque anni».
A detta della difesa, la dizione della norma avrebbe dovuto indurre il giudice di merito ad assolvere l’imputato in quanto lo stesso non aveva dato origine al fuoco – unica condotta asseritamente punita dalla norma – ma aveva solo ed occasionalmente gettato rifiuti in fuoco acceso da altri.
La Suprema Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, ha rigettato l’avversa censura e, ponendosi in linea di continuità con le asserzioni del giudice di merito, ha affermato che la pacifica qualificazione del reato quale di pericolo concreto (alla luce della costante interpretazione della norma e della voluntas legis espressa all’interno della richiamata relazione di accompagnamento) importa la configurabilità del delitto in parola non soltanto nei casi in cui l’agente abbia appiccato l’incendio ma anche allorquando questi abbia contribuito a mantenerlo in vita: il pericolo, infatti, persiste per tutta la durata dell’incendio e, pertanto, la condotta di alimentazione del fuoco non può che dirsi integrativa del reato.
Cass. Pen., Sez. II, 23 Giugno 2022 – Ud. del 19 Maggio 2022 – n. 24302 Pres. G. Rago Rel. A. Mantovano